Turó de la Rovira, terrazza della città
Questa mattina, approfittando della temperatura ancora mite e del comodo risveglio dei turisti dopo i bagordi del sabato sera, ho deciso di alzarmi prima del solito, ho indossato le mie scarpe da running e, dalla Sagrada Familia, seguendo Carrer de Sardenya, sono giunta al Bar Las Delicias (noto per il romanzo di J.Marsé – Ultimas tardes con Teresa).
Non avevo altra meta, se non un’altura (una delle tante colline che circondano Barcellona), per respirare un po’ d’aria pulita ed ammirare l’alba sulla città. Quindi al bivio tra Carmel, Parco Guell e Turó de la Rovira, ho scelto la terza opzione e percorso quegli ultimi trecento metri, che in salita, mi hanno portata in pochi minuti alla terrazza dels Canons.
Eravamo in tre stamattina: io, un anziano signore con il suo bassotto e un fotografo munito di macchine e cavalletti di ogni tipo, visibilmente entusiasta per lo spettacolo che, di lí a poco, avrebbe avuto il privilegio di ammirare. Ci siamo seduti, come al cinema, su un pavimento coperto di piastrelle colorate, e abbiamo atteso in silenzio che il sole si levasse sulla città.
É stato un risveglio lento e senza scosse, ben diverso dalle albe a cui questo luogo avrà assistito nel corso della sua storia recente, albe di sirene e tuoni, pregne di sentori acri di fumo e polvere da sparo, albe di donne e uomini già al lavoro, di soldati improvvisati e di cannoni puntati verso il cielo.
Giungere al Turó de la Rovira, dopo aver letto le recensioni dei viaggiatori (qui al tramonto i turisti attratti dal mirador a 360º, bevono la loro Estrella e suonano insieme la chitarra) é senz’altro affascinante, ma ammirare l’alba in silenzio, ascoltando le voci del passato ed il soffio del vento tra le fitte baracche di ferro e cemento (di cui oggi resta ben poco), é un’esperienza unica.
Mi volto verso il signore con il bassotto che, come me, osserva dal promontorio lo stesso spettacolo. Mi sorride, ma ha gli occhi visibilmente lucidi. Io ricambio il sorriso senza parlare. Lascio che continui a vagare, solitario, tra i propri pensieri … e chissà, tra i propri ricordi.
Quando il sole é giá alto su Barcellona, mi preparo a scendere verso il centro. Mi attende almeno mezz’ora di cammino. Penso al programma e agli impegni della giornata, dimenticando per un attimo la quiete di questo luogo senza tempo. Ma non riesco ad alzarmi, perché una mano afferra il mio braccio e mi trascina verso il basso: “Era la mia grande famiglia” dice l’uomo in castigliano. Io lo guardo … e penso che forse potró trattenermi ancora un po’.
Manolo é andaluso, ma ha trascorso quasi tutta la vita a Barcellona. “Questa é la mia città”, dice infatti senza esitare “Ma per noi niente é stato facile”. Parla al plurale, come se la sua vicenda fosse parte integrante della storia di un’intera comunità, e come se quella comunità, adesso dispersa, gli chiedesse di raccontarla. “Perché le future generazioni rispettino questo posto e ne abbiano riguardo” – Spiega.
“Io vivevo qui”. Mi mostra con la mano ció che resta di un perimetro tondo di cemento. “Qui c’era il bagno. Guarda, ci sono ancora le piastrelle a fiori, e lí ci dormivo con i miei fratelli. Vedi quel tubo? Era l’impianto idraulico. L’aveva progettato mio padre, realizzandolo con i materiali depositati sulla collina dopo i bombardamenti della Guerra Civile. Le piastrelle bianche invece provengono dall’ospedale nuovo. Barcellona allora era un cantiere, e non fu difficile procurarsi del materiale per costruire le baracche. Tutto abusivo, ma che potevamo fare? Non avevamo niente e la mia famiglia era decimata a causa della guerra e della fame. Mio padre era della Sierra Nevada e mia madre di Siviglia.”
Iniziamo a camminare tra i depositi, ormai completamente rasi al suolo, e Manolo con le mani, ricostruisce nell’aria le baracche di ferro e di materiali di risulta: “Da provvisorie, hanno ospitato per quasi trent’anni centinaia di persone”.
E` talmente lucido il suo racconto, che non fatico ad immaginare neppure gli abitanti di questa contrada singolare, i loro sguardi, le serate trascorse intorno ad un faló o al buio sotto le stelle, le loro animate discussioni, le lunghe processioni, le feste popolari. “Perfino i matrimoni venivano celebrati qui, tra queste instabili pareti. All’inizio, negli anni ´40, le nostre modeste case erano fatte di cartone e pietre. Non avevamo neppure l’elettricità … e l’acqua era un miraggio! Ma io sono nato qui, e nonostante la povertà, sono cresciuto serenamente all’interno di questa piccola tribú. Non mi é mancato nulla.”
“Guarda. – sollevando ancora il braccio verso l’orizzonte – Gli aerei italiani partivano dalla base di Maiorca, durante la notte, e bombardavano a tappeto la città. Era il 1938. Arrivavano proprio qui, dal mare. Mio padre mi disse che l’ordine giunse direttamente da Mussolini attraverso un telegramma: «Iniziare da stanotte azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo.» Diceva cosí, azione violenta, lo ricordo ancora. E lo fu davvero; piú di 900 morti civili in tre notti. Ma questo sarebbe stato solo l’inizio…
Mio padre era povero, ma leggeva molto. Neppure un quotidiano gli sfuggiva! E ci raccontava tutto ció che sapeva. Mi disse che nel 1939, per evitare che i cannoni finissero nelle mani del nemico, la batteria antiaerea fu smantellata e sulla collina si accumularono i detriti, i resti metallici ed i residui di quella postazione di difesa, forse un po’ raffazzonata.
Barcellona era allo stremo. E anche il resto della Spagna non se la passava bene… Subito dopo la guerra aumentó l’emigrazione interna e in molti furono costretti a lasciare il pueblo per raggiungere le città. Pensa che solo a Barcellona si contavano piú di 100.000 baraccati. Ecco come ci chiamavano, i pezzenti, la vergogna della Ciudad Condal! Ma io sono fiero di essere nato qui. Questa collina é stata popolata per millenni. Nel 1932 un archeologo vi scoprí addirittura un piccolo villaggio iberico. Ed é cosí che l’ho vissuta da bambino. Come un luogo magico e aperto, che nel corso della storia ha ospitato uomini liberi e piccole comunità unite.
Ma lo sguardo dei bambini sulla realtà cambia con gli anni. E crescendo anch’io iniziai a capire che non potevamo piú vivere cosí. Aumentavano le malattie dovute all’insalubrità del territorio o all’inapprorpiata alimentazione e non mancavano neppure i casi di alcolismo. Il Centre social del Carmel, di cui facevo parte, lottó quindi per ottenere migliori condizioni igieniche ed abitative, e nel 1984 molti dei miei compagni si trasferirono nei palazzi costruiti laggiú. L’ultima baracca fu smantellata nel 1990. Ecco, questo é ció che resta.”
Nulla da aggiungere. Manolo chiama il bassotto e, prima di ripartire, mi tende la mano: “Mi piacciono i turisti, hanno riportato alla luce questo luogo dimenticato. Mi ricordo che circa dodici anni fa incontrai una guida, si chiamava Lluís. Era entusiasta, veniva spesso da queste parti. Fu lui a scrivere il primo progetto culturale e a proporlo alle istituzioni, ma solo da poco tempo sembra che qualcosa si stia muovendo davvero. Sai che ti dico? Per me il Turó de la Rovira é patrimonio dell’umanità… e questa collina é come un territorio internazionale. Appartiene, da sempre, a tutti!” Sorride, infila il suo berretto di tela, e se ne va.